Dentro la poesia (17): Azzurra D’Agostino – Poesia come domanda

Azzurra D’Agostino è nata e vive in un piccolo paese dell’Appennino tosco-emiliano. Ha pubblicato varie raccolte di poesia (per le quali ha ricevuto il Premio Carducci, il Premio Valigie Rosse ed è stata finalista al Premio Viareggio-Repaci) e scrive per il teatro e per le arti performative. Ha pubblicato vari albi illustrati per gli editori Giunti, Fatatrac, Electa Kids, Mondadori. Nell’ottobre 2020 è uscito il suo primo romanzo per ragazzi: Il giardino dei desideri (De Agostini Planeta). Nel 2023 Ghost light-insieme fuori dal buio (Giunti), nel 2024 La notte in cui ho ucciso Kurt Cobain (Il Castoro) e Messaggi al presidente (Le Lettere). Oltre a scrivere, conduce laboratori di poesia per persone di tutte le età.

Teroni

Buongiorno Azzurra. Ho letto il tuo ultimo libro: Messaggi al presidente. In particolare la prima parte, in cui si parla della fase Covid, ha avuto in me un effetto mnemonico sul piano emotivo. Mi sembra la testimonianza di una serie di sensazioni, sentimenti, rabbia, paura e altro. Ci sono cose che ho dimenticato e forse è successo a tanti come a me, ma il tuo testo le ha in qualche modo risvegliate.

D’Agostino

Quando l’ho scritto non pensavo a niente altro che a testimoniare quello che succedeva a me come sensazione. Quindi era soprattutto un bisogno di non lasciare scorrere le cose, di non subire un linguaggio abbastanza violento, come era quello tecnocratico con cui venivamo tutti i giorni informati di cose piuttosto disumane. Quindi era semplicemente un rivedere quello che succedeva giorno per giorno, attraverso un filtro che era quello di un’altra lingua, potrei dire che lo sguardo è la lingua della poesia in qualche modo, comunque una lingua non istituzionale.
Quando le ho rilette anch’io a distanza, nel senso che io ho scritto poi le ho lasciate lì, la sensazione è stata simile a quella che dici, nel senso che mi sono ricordata delle cose che avevo non credo dimenticato, ma rimosso.

Sì sì, hai ragione: “rimosso” è il termine più adatto.

Cose che però ci sono. Nel senso che altre persone mi hanno riportato queste sensazioni che dici. È riemerso tutto molto chiaramente. Quindi, evidentemente, non era andato via, non era così, era soltanto in un angolino che aspettava di essere rielaborato, aperto. Quindi non si può dire che ci fosse una programmaticità iniziale, ma il desiderio di condividerlo è diventato successivo . La programmaticità è venuta quando i direttori di collana (Raoul Bruni e Diego Bertelli) hanno detto: “Sì, anche secondo noi questa scrittura dice qualcosa che può riguardare gli altri, non è un diario e basta.” E così è stata decisa la pubblicazione, accorpando altri testi che avessero dimensione pubblica come sono appunto quelli per il teatro.

Non è un diario… anzi è un diario, ma un diario collettivo. Come se parlassi di qualcosa di personale, anche di intimo, però è un qualcosa di intimo che riguarda un po’ tutti.

Forse questo anche perché a volte uso anche la voce di altri, magari parole lette in giro mentre ero chiusa. Mi mettevo nei panni di alcune categorie soprattutto, cioè le più bistrattate che alla fine erano quelle dei più piccoli, o delle persone che avevano subito un lutto, o quelle che stavano male e quindi a volte proprio prendevo parola per loro. Però, sì, mi sono accorta che effettivamente c’è qualcosa che è corale lì dentro, l’unità del libro sta, penso, nella coralità di tutte le parti, cioè anche la seconda parte, appunto quella degli scritti teatrali. Restano sempre scritti ovviamente, ma il teatro è già corale di suo, in particolare lo è il modo in cui sono stati scritti questi testi, quindi la dimensione collettiva è un po’ il desiderio forse di questo libro.

Quindi lo hai scritto durante, diciamo, i due anni di Covid?

Allora, la prima parte, Messaggi al presidente, si, l’ho scritto dal primo decreto del Presidente dei ministri, quindi il giorno dopo la chiusura per lock-down. E mi ero detta che avrei continuato anche quando non avevo, tra virgolette, voglia o ispirazione, insomma mi ero data un appuntamento tutti i giorni. Tutti i giorni, mi ero detta, finché finisce il quaderno su cui sto scrivendo. Quindi ho iniziato un quaderno ed è durato fino al maggio dello stesso anno (era il 2020), per cui sono più di 80 testi, che sono scritti giorno per giorno veramente.

Corrisponde alla realtà quando metti la data?

Sì. Infatti quando c’è, che so, la scena col papa che va da solo a San Pietro, è vero: era quel giorno lì; quando si parla di Pasqua, era Pasqua; quando c’è il riferimento a cose di cronaca si riferiscono in effetti a questioni occorse in quel tempo. Volevo rielaborare quella serie di informazioni della mera cronaca in una modalità più umana, discorsiva, in un’altra lingua proprio.

Apro una parentesi. Evidentemente, avendolo scritto su un quaderno, lo hai scritto a penna. Fai sempre così: scrivi con la penna?

La narrativa di solito, a parte il mio ultimo romanzo (La notte in cui ho ucciso Kurt Cobain) la scrivo al computer. Quindi, quando scrivo romanzi per ragazzi o romanzi insomma, scrivo di solito a computer. La poesia quasi sempre a penna, perché magari mi succede che la scrivo fuori, in giro. Magari ho il quaderno dietro e prendo un appunto. Sono più abituata sulla carta.

Continuo su questo parentesi, perché è un argomento che è già emerso parlando con altri poeti. Mi interessa sondare il “come si scrive poesia”. Tu mi dici che per la poesia normalmente usi la penna. E c’è un motivo tecnico pratico. Ti viene un verso, un’idea e te la appunti. Credi anche che la penna abbia un rapporto diverso con la parola rispetto al computer?

Può succedere anche che sono al computer e scrivo una poesia direttamente su computer.
Chiaramente il quaderno è più… forse viene da più lontano per me, perché sono nata in un’epoca in cui non si usava scrivere al computer. Quindi è una questione di confidenza. Non sono contraria allo scrivere al computer, però sicuramente avere il quaderno è prezioso… posso ripescare cose. A volte, quando un quaderno sta finendo, io vado a ricopiare tutte le poesie perché magari le ho scritte, me le sono dimenticate, dopo le tengo, le vado a rileggere, vedo se c’è qualcosa che posso tenere, perché poi i quaderni non li rileggo, dopo che li ho finiti, quasi mai; cioè ne ho casse, ma non li rileggo. Quindi prima di metterle via ricopio le cose che mi sembrano sensate, magari di poesia.

Quindi fai un lavoro di selezione?

Sì sì.

Senti, chiusa la parentesi, e ritornando a Messaggi al presidente. Leggendolo, un’altra cosa che mi è venuta in mente è questa. Tu ti riferisci evidentemente a Conte, che era il Presidente del Consiglio. Però ho la sensazione che il Presidente non sia solo Conte, ma che sia, che so, il potere in generale o che.

Sì, è così, è una voce che parla al potere. Al potere proprio incarnato nel senso che non potrebbe essere anche un altro Presidente, non è la sua figura in quanto tale che mi ha mossa… Era più il fatto che c’era un unico singolo che, a nome di figure oscure (perché magari noi non abbiamo proprio idea dei processi che ci stanno dietro alle cose) si rivolgesse sempre in modo univoco a tutti, decidendo delle vite di tutti, in modo anche molto freddo, tecnico. Quindi tu decidi che non possiamo visitare una persona che sta morendo, il padre, il fratello, e me lo dici in un modo distaccato, asettico, e io non posso rispondere, cioè non posso fare niente. Non posso, non posso oppormi perché sarei arrestato; non posso fare niente; non posso dire niente.
Allora, ecco, magari avere un modo con cui la parola diventi anche un moto,
un’occasione per trovare le parole per tutti noi, insomma, mi sembra importante.

Sì, perché, in effetti, un’altra cosa che emerge è il linguaggio. È un linguaggio, come dire, molto, molto diretto che viene dal cuore, che viene dal profondo. Ed è la sua forza che, in effetti, come dici tu, si oppone a quel linguaggio che era un po’ asettico, burocratico, a cui tutti ci eravamo abituati. E questa è forse la forma di violenza parallela di quanto è successo.

Parlare di persone, di morti, di decessi, di numeri…E per quello all’inizio, ho notato, ricopiandola, che era nuova quella lingua. I testi riportano parole come “pandemia”, che erano nuove, cioè la prima volta che è stata usata, a Marzo, la parola “curva”, o quelle, erano parole nuove. Man mano che si parlava nei mesi di quella roba lì, invece diventava un martello foriero di notizie molto pesanti. Ed è a quel punto che la lingua del quaderno cambiava in lirica, quindi perde quei termini tecnici e diventa più un cantare anche la primavera che succedeva intorno, o cose più intime, ecco, più dettagli… e mi sembra questo significativo, ecco.

Perché hai scelto la poesia per raccontarlo?

Eh beh… perché più che altro non voleva essere un saggio, non voleva essere un pamphlet di polemica. Non poteva essere altro che la lingua opposta al potere, che per me è la poesia.

Ho un altra cosa da chiederti: c’è il rischio, il dubbio, che un testo così venga poi letto politicamente o usato politicamente. Ti sei posta questo dubbio?

Uhm… sì… e no. Nel senso che, come diceva la Bachman, ogni poesia è politica, cioè se la poesia è la lingua alternativa al potere vuol dire che comunque sta dando un’alternativa a quello che c’è.
E lasciando sempre lo spazio di essere ambigua, per cui uno potrebbe anche leggerci quello che vuole, ma in realtà non credo, non mi sembra che ci sia mai una presa di posizione o un giudizio. Ci sono delle domande più che altro: come ti senti, dopo averci detto questo, tu potere, andando a letto la sera?
Forse più questo che non una cosa esplicita. Non perché ci sia vigliaccheria, ma perché non è questo che fa la poesia: la poesia apre delle domande, non dà delle certezze, secondo me.

In quella fase che, a ripensarci, è stata veramente delirante, mi chiedevo: ma nessuno dice qualcosa di diverso dalla quello che è diventata un’unica verità? E mi ricordo che Giorgio Agamben aveva scritto un libro, un saggio in cui ipotizzava, se non sbaglio, che si trattasse di una sorta di prova… cioè il potere mette alla prova per vedere fino a che punto può spingersi.

Si, è vero. Ricordo anche che ci furono molte critiche. Era tutta una partigianeria. Cosa che detesto. Io non riuscivo, mentre sono dentro alle cose, sarò lenta, ma non riuscivo a districarmi, a dire con chiarezza cosa stava succedendo, quindi non mi sono mai esposta, non è nella mia natura prendere subito una direzione, pensavo e cercavo di capire, ma non per per vigliaccheria, bensì perché penso che, quando parli, devi avere un minimo di approfondimento, e non mi sentivo in grado di dire niente. Non mi sentivo in grado, che non vuole dire “non vedo che c’è una falla”, però non c’era una risposta alternativa, di cui mi sentivo davvero certa. Perché quando sei in quella situazione, magari sei anche preoccupato che ci sia effettivamente qualcosa che poi che tu stai facendo e che può essere pericoloso per gli altri. Quindi magari in modo esagerato diventi ligio per precauzione, perché speri che quello che fai abbia senso.
Io non avevo alternative da proporre, anche se questo non vuol dire non mettere in discussione o non porsi criticamente. Quindi la mia risposta era quella lì: scrivere delle piccole cose che leggevo solo io, perché le scrivevo per me; per me è stato un diario, ma particolare; non ombelicale. È stato un piccolo antidoto che erano queste domande, questo ritornare a occuparci… Io avendo la fortuna di vivere vicino al bosco, tanto spazio… avere delle esperienze, anche solo molto piccole, come trovare, non so, un uovo o le caprette del vicino libere… Sono cose che mi sono successe, ecco, questo. E non mi lasciava un attimo il pensiero degli altri, di chi era in galera, di chi aveva perso qualcuno, di chi si sentiva oppresso, detestavo questo essere messi gli uni contro gli altri, e anche la sensazione che qualcosa di importante fosse nascosto. Ho pensato, studiato, ascoltato e scritto.

Per te la poesia, o lo scrivere in generale, ha una forma curativa?

È una cosa su cui mi interrogo molto, perché il rischio di pensarlo puramente come “curativo” si fa confusione col pensarlo come “consolatorio”, e mentre penso che lo scrivere (e leggere, insomma la letteratura) possa essere curativo, non credo che sia consolatorio. Quindi devo fare questa distinzione, cioè non è un balsamo per tutti i mali, ma proprio perché è qualcosa che può anche aprire di più le ferite, è una modalità per favorirne nella cicatrizzazione, in qualche modo, non so come dire. Quindi la mia sensazione (non pretendo che sia la verità assoluta o che non ci siano altre possibilità), però la mia sensazione è che la parola abbia, ovviamente, in sé un qualcosa di più grande, che è non è solo comunicativo. E quindi, soprattutto nella poesia, in cui non c’è soltanto la logica a unire le cose, ma c’è tutto il corpo, e anche di più quello che è nel corpo, cioè quello che non è corpo, perché per me è la stessa cosa, chiaramente apre alla possibilità di un’alternativa. Magari in quel momento può anche essere un rimedio, ma non vuol dire che ti sta consolando; non vuol dire che non ti stia ferendo o che non ti stia mettendo davanti a degli abissi, ma volte anche quella è una modalità. Curativa? Rispondo di sì, con questo distinguo.

Le mani

Uno dice: gli occhi sono lo specchio dell’anima.
Ma è con le mani che ti presenti.
Che cucini.
Che saluti chi arriva.
Che accarezzi chi ami.
Che cuci. Che indichi l’ora di andare.
Che apri le porte.
Che chiedi di fare silenzio.
Che dai uno schiaffo.
Che tieni stretto chi va via.
Che scrivi.
Che mostri la strada.
Che sfogli le foto, i libri, i diari.
Che chiudi a chiave e metti al sicuro.
Che pianti l’albero che non vedrai.
Gli occhi sono sopravvalutati.
Non è con gli occhi che si tocca il mondo.
Non è con gli occhi che lo si cambia.
Non è con gli occhi che si vede davvero.
È quando li chiudo che si rivela il mistero.

(da Messaggi al Presidente, 2024)

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