Francesca Genti (Torino, 1975). Ha pubblicato i libri di poesia Bimba Urbana (Premio Delfini, Mazzoli, 2001), Il vero amore non ha le nocciole (Meridiano Zero, 2004), Poesie d’amore per ragazze kamikaze (Purple Press, 2009; Sartoria Utopia, 2015), L’arancione mi ha salvato dalla malinconia (Sartoria Utopia, 2014) e Il mio bambino mi ha detto (Sartoria Utopia, 2016, con illustrazioni di Manuela Dago); La ballata di Nina Simone (Harper Collins, 2022, candidato al Premio Strega Poesia e vincitore del Premio Tir). Come narratrice ha scritto i racconti Il cuore delle stelle (Coniglio Editore, 2007) e il romanzo La Febbre (Castelvecchi, 2011), ha pubblicato il saggio La poesia è un unicorno (Mondadori, 2018). Con la casa editrice Quintadicopertina ha partecipato al progetto “Abbonamento all’autore”. Suoi testi sia in prosa che in poesia sono apparsi in varie antologie e riviste tra cui «Nuovi Argomenti», «Alfabeta 2», «Lo Straniero» e su alcuni lit-blog come «Nazione Indiana», «La poesia e lo spirito», «La dimora del tempo sospeso» e «Poetarum silva». Con Manuela Dago ha fondato Sartoria Utopia (www.sartoriautopia.it), capanna editrice di libri di poesia.
Buongiorno Francesca. Ho notato che ti definisci “poeta”. Una curiosità: perché non “poetessa”?
Sai che è una questione piuttosto dibattuta? Per me non è così essenziale. Trovo che “poeta” sia una parola semplicemente più armoniosa; mi piace di più come suono.
Ti piace più come parola?
Sì, ma non mi offendo se mi chiami poetessa. Io mi definisco poeta, poi tu chiamami come voi.
Mi interessava perché una poeta che ho intervistato, Francesca Matteoni, diceva che, tutto sommato, la letteratura è in gran parte maschile: non solo come presenza, ma anche come impostazione. Anche tu hai questa impressione?
Beh, il Novecento è un secolo con grandi poete donne. Sì, a livello proprio numerico ci sono più poeti; certo, prima del Novecento in maniera preponderante. Però, soprattutto negli ultimi anni, credo ci siano poete molto importanti, sia italiane sia in tutto il mondo, quindi mi sento a mio agio nel tempo presente. Quindi non sento una prevalenza che può minacciarmi.
Ho trovato in una tua intervista una definizione della poesia che mi sembra interessante. Tu definisci la poesia “la più bella e la più ostica delle arti”. Puoi spiegare meglio questa affermazione?
La più “ostica” perché per me la poesia è sempre difficile, anche poesie che possono, di primo acchito, sembrare più comunicative. Però io penso che la poesia non sia per tutti. “Bella” perché quando diciamo che una cosa è bella, diciamo “è poesia”, anche riferito ad altre cose. Ha a che fare con il “bello”. A volte il bello può essere in una poesia che non tratta nulla di “bello”, però ha a che fare con la bellezza.
Quindi potremmo, paradossalmente, dire che la poesia rende bello ciò che tratta?
Beh sì… dovrei pensarci un po’… però, così a pelle, potrei condividere questa tua definizione.
Che so… Marinetti, per esempio, tratta di guerra in una sua poesia e la racconta in maniera esaltata, futuristica, la rende a modo suo bella.
Sicuramente ogni parola rende degno qualsiasi cosa tratta. Forse c’è una forma di bellezza nel dare dignità.
Mi rifaccio a un’altra cosa che osservi: tu, in un’intervista, dici che i social possono essere utili alla poesia, alla diffusione della poesia, perché la poesia è “fotogenica” dici.
Fotogenica perché è piccola… sta in una foto. Esattamente solo in questo senso. Una pagina di narrazione, fotografata, uno fa fatica a leggerla. Invece una poesia in forma chiusa può essere fotogenica. In realtà non è che io sia esaltata per i social. Però in qualche modo aiutano alla diffusione. Una poesia può essere scritta su un muro o in uno striscione durante un corteo. In social network, in questo senso, possono svolgere questa funzione di renderla più popolare.
Senti, ma non va un po’ in contrasto con quanto dicevi prima: che la poesia è ostica e che è una forma di espressione, diciamo così, abbastanza elitaria, elitaria nel senso che richiede una certa competenza, competenza nel senso di impegno.
Una persona può essere molto colta ma non capire la poesia, perché è molto vicina alla musica. Sicuramente, studiarla ti aiuta, però è una cosa piuttosto istintiva. Elitaria, quindi, nel senso che la può apprezzare chi ha una certa sensibilità. Non è una questione necessariamente di essere più o meno colti.
Una cosa che ho notato in letteratura è che, quando uno scrittore o un poeta ha successo, il successo è visto come qualcosa di commerciale, come se l’essere commerciale facesse perdere di qualità in qualche modo. Secondo te è così?
Mah… mi ricordo che in un’intervista Giorgio Caproni, autore di cui nessuno nega l’importanza, disse che lui vendeva tantissimo. Ovviamente adesso c’è un discorso un po’ diverso di mercato, però ci sono poete di alto livello, come Patrizia Cavalli o Patrizia Valduga, che vendono tanto.
Quindi, dici, non va in contrasto?
In questi termini, penso di no. Diciamo che non è quello che svaluta una poesia.
Ho letto che associ la poesia al viaggio… è così?
Non lo sapevo.
Allora mettiamola così: secondo te c’è un nesso tra un viaggio, un percorso anche conoscitivo e lo scrivere poesie?
Il percorso è dato da A a B, cioè parto da un punto per arrivare a un altro. In questo senso, non vedo un nesso. Percorso conoscitivo sì, ma fino a un certo punto, perché puoi sempre tornare indietro, perché spesso la poesia ha a che fare con l’intuizione, e l’intuizione tu ce l’hai ma puoi anche perderla, non si consolida. Almeno, io ho sentito questo: nella mia pratica di scrittura posso anche tornare indietro e prendere degli altri sentieri. Forse di viaggio ne ho parlato a proposito del mio ultimo libro, La ballata di Nina Simone, che è un poema. Quindi in questo caso di un poema scritto in canti, in ottave, in questo caso ci può stare dentro il discorso di un percorso, perché ho scritto tutti i giorni per un lasso di tempo e, a un certo punto, avevo un po’ la sensazione di camminare. Però specificamente per quel libro, non in generale.
Se ho ben capito, hai un rapporto altalenante con la poesia, come un continuo “esserci e non esserci”.
Sì.
In che senso?
È molto ambivalente. Io sono poeta in pochi momenti della mia vita. E meglio così… perché se no sarebbe insopportabile. Ci sono momenti in cui non scrivo. C’è una poeta che io amo molto, Silvia Cassioli, che dice la poesia è come un osso. Devi trovare il tuo osso. Però ci sono momenti in cui non ho questo osso. E questa cosa mi succede da sempre. Io scrivo da quando avevo 6 anni… ora ne ho 48 e sono quindi 42 anni che scrivo poesie… e questa cosa mi ha sempre accompagnata. Ci sono momenti in cui mi sento più lontana, altre in cui mi sento più vicina. Però non è che mi preoccupo quando non scrivo poesie. Potrebbe essere l’ultima volta che scrivo, penso, chissà… poi invece è qualcosa che rinasce.
Quindi non è che ti metti lì e dici: oggi scrivo una poesia?
No no.
È come se venisse l’ispirazione a trovarti?
Sì, ma credo che sia un meccanismo che riferiscono molti poeti, di essere adottati dalla poesia. A me, è quello che piace di più come esperienza. Pessoa in una lettera dice che si guarda allo specchio e vede un’altra persona e si mette a scrivere poesie sotto un altro nome. Quello è un caso estremo, quasi psichiatrico. Però credo che esista l’ispirazione. Se tu mi chiedi di scrivere una poesia, così, come un mestiere, ci potrei riuscire ma avrei difficoltà.
Diciamo che le poesie che hai scritto, o meglio, quelle che ti soddisfano di più, le hai scritte in una condizione di ispirazione?
Diciamo che la condizione che mi viene più necessaria è l’ispirazione.
Un problema che un po’ è emerso in questi dialoghi con i poeti è che, mi pare, alcuni vedono di più prevalere l’aspetto tecnico, altri di più l’aspetto emotivo. Mi pare che ci siano queste due grandi linee di impostazione.
Beh… credo che l’emotività sia un dato tecnico in poesia.
Cioè? Spiegami meglio!
Credo che una poesia che nasce senza emozione non valga niente. Credo che le emozioni siano uno degli strumenti in mano al poeta, e tra questi c’è anche la tecnica. È come un pezzo di marmo in mano allo scultore: è necessaria la tecnica, ma senza la sensibilità non viene fuori niente.
Un’altra cosa che dici e che mi ha incuriosito è quando parli di animismo degli oggetti, come se gli oggetti avessero un’anima e quindi fossero adatti a entrare in poesia. Parli per esempio della caffettiera che può esplodere, come se potesse ribellarsi. Lo trovo molto divertente. Scrivere poesia è mettersi in contatto con gli oggetti intorno a noi?
Beh… sì, sicuramente. Soprattutto se si tratta di una poesia in cui sono presenti degli oggetti: un paesaggio di oggetti molto fitto. E quindi sì, c’è questa cosa di entrare in contatto con la realtà per scrivere poesia.
Va bene. Allora passo all’ultima domanda, quella del “gioco della torre”. Per te ho scelto un’opzione tra due donne. Chi, tra Sibilla Aleramo e Amelia Rosselli, ritieni che vada assolutamente messa nella storia della letteratura e perché?
La Rosselli! Senza ombra di dubbio.
Eh… forse te l’ho data troppo facile… Eppure la Aleramo è importante.
Sì, ma come figura culturale, come femminista.
E la Rosselli perché andrebbe messa?
Beh… è già messa…
Sì ma… non so… nelle antologie di scuole superiori credo poco.
Comunque è un’importante poeta del Novecento europeo. Ha indagato soprattutto la nevrosi nei suoi testi. Ha lasciato delle tracce importanti; ha anche indicato una via.
Io, oggi, con la mia disperazione
sto qui. completamente costernata.
l’hai fatta grossa in questa situazione:
hai fatto veramente la cazzata.
parlo così, io:
alla mia tigre
alla mia maleducazione
alla malora di questa mia giornata.
vorrei passare un brutto quarto d’ora:
io e la mia tigre
essere sbranata.
vorrei andarmene dritta giù in prigione.
sto qui. completamente frastornata.
a dire alla mia tigre cosa non deve fare
a dire alla mia tigre di comportarsi bene
io alla mia tigre a cui voglio tanto bene
ma che non riesco ad addomesticare.
Da Poesie d’amore per ragazze kamikaze (Sartoria Utopia, 2015)