(Il 14/8/2018 crollò a Genova il cosiddetto ponte Morandi. Morirono 43 innocenti. Una tragedia figlia dell’incuria, dell’avidità, del cinismo terrificante)
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Il 14 agosto del 2018 a Genova pioveva a dirotto. Era una pioggia fitta, pesante. Alle ore 11:36, la pila numero 9 del viadotto Polcevera (meglio noto come Ponte Morandi) si crepò dal basso e, in lampo, crollò. Era alta 90 metri.
Il ponte univa e unisce (oggi si chiama Viadotto San Giorgio) l’autostrada A7 con la A10. Per le macchine che viaggiano da Milano o da Piacenza o da nord-est rispetto a Genova, quello era ed è uno dei due passaggi autostradali obbligati per arrivare in città. Da anni, ci passano milioni di mezzi. Il giorno in cui il ponte cadde, precipitarono nel vuoto decine di auto e tre camion. Morirono 43 persone.
Sommario
Lo sfacelo
La scena ha dell’apocalittico: cedettero 200 metri di carreggiata ingoiando tutto. Un tir venne risucchiato dal vuoto, l’asfalto si sbriciolava e le auto precipitavano con i passeggeri a bordo. Un furgone bianco (rimasto simbolo fortunato del dramma) venne sorpassato da un auto che in un lampo gli tagliò la strada e l’attimo successivo sparì. Quella frenata improvvisa salvò il conducente, che rimase in bilico, a pochi metri dal vuoto. I mezzi dietro frenarono tutti; alcuni tentarono addirittura di fare inversione ma era impossibile. Moltissimi scesero e iniziarono a correre in direzione opposta alla voragine. Intanto continuava a piovere.
Chi andava in vacanza…
Roberto Robbiano (età 44) insieme alla moglie Ersilia Piccinino (41) e il figlio Samuele (7): stavano andando a imbarcarsi per la Sardegna.
Juan Carlos Pastenes (64) con la moglie Nora Rivera (47) e un amico, Juan Figueroa (60): stavano andando in vacanza.
Andrea Vittone (49) con la moglie Claudia Possetti (48) e i figli di lei, Manuele (16) e Camilla (12) Bellasio: i due si erano sposati da poco e stavano andando a Sestri Levante.
Christian Cecala (42) insieme alla moglie Dawne Munroe (42) e la figlia Crystal (9): dovevano partire per l’isola d’Elba.
Alessandro Robotti (50) e la moglie Giovanna Bottaro (43): tornavano dal mare.
Alberto Fanfani (32) viaggiava con la fidanzata Marta Danisi (29). Carlos Jesus Eraso Trujillo (23) e Stella Boccia (24) erano fidanzati e tornavano da una vacanza. Nathan Gusman (21), Melissa Artus (22), Axelle Nèmati Alizee Plaze (19), William Pouzadoux (22): quattro ragazzi in vacanza.
Elisa Bozzo (34) guidava una Opel nera. Giovanni Battiloro (29) Gerardo Esposito (26), Matteo Bentornati (26), Antonio Stanzione (29): erano 4 amici diretti a Barcellona.
Chi andava al lavoro…
Andrea Cerulli (48) stava andando a lavorare al porto. Luigi Matti Altadonna (31): viaggiava per lavoro, era appena stato assunto da Mondo Convenienza. Marius Djerri (22) insieme a Edi Bokrina (28): viaggiavano su un furgone per le pulizie. Gennaro Samataro (43): era autotrasportatore. Giorgio Donaggio (57): stava andando al lavoro in un cantiere nautico. Vincenzo Licata (58): viaggiava per trasporti d’acqua. Henry Diaz Henao (28) stava accompagnando Angela Zerilli (58) in un centro benessere. Marian Rosca (36) viaggiava con Antonilii Malai (44), entrambi camionisti: Marian non morì subito, ma in ospedale, dopo due giorni. Francesco Bello (42): andava a lavorare.
Mirko Vicini (31), Bruno Casagrande (57), Alessandro Campera (55): tutti e tre stavano lavorando sotto il ponte e furono travolti dal crollo.
Le responsabilità
Chi è il responsabile di questa tragedia? La risposta ovvia è di chi si occupava delle autostrade, ovvero la società Atlantia, il cui maggior azionista era Benetton. Eppure la risposta è parzialmente esatta. In realtà, la responsabilità è da attribuire a una serie di corrispondenze, tra cui anche Atlantia. Vi è una concatenazione di fatti che ha portato a questa tragedia: vi era un vizio di costruzione in quel complicato intreccio di equilibri su cui si reggeva il Morandi. Ma, a questi vizi di fondo, sono mancati i necessari controlli e la necessaria manutenzione con le conseguenti necessarie azioni correttive. Chi è quindi responsabile? Non uno, ma tanti, in un complesso rapporto di equilibri (di cui il ponte Morandi può rappresentare una metafora). È responsabile Atlantia per non aver effettuato i necessari investimenti mirati alla cura e al miglioramento. È responsabile ANAS (controllata dallo Stato, quindi il governo, ma non uno… vari) per non avere vigilato sui mancati controlli. E, dietro questi, altri.
Difetti noti da tempo
Eppure i difetti del ponte Morandi erano già stati denunciati, addirittura già nel 1975 (ovvero 8 anni dopo la conclusione dei lavori). Vi erano degli errori nel materiale di base, difetti che provocarono un rapido deterioramento del calcestruzzo. Lo stesso Morandi, l’ingegnere che lo aveva progettato, denunciò nel 1981 la necessità di interventi. Tuttavia, incredibilmente, tali interventi non furono effettuati. Si sapeva all’epoca e si sapeva nell’anno della tragedia. La holding Atlantia che gestiva autostrade era ben consapevole dei rischi: “sono attaccati con il Vinavil…” fu il commento di un tecnico (citiamo dagli atti della Procura). Invece niente: le scelte fatte furono aumento dei guadagni e calo degli investimenti.
Il fattore disgrazia
A tutte questa mancanze di base va aggiunto il fattore “caso” o “accidente”. Quel giorno la pioggia era particolarmente torrenziale e, a questo, va unito il transito di un tir dal peso eccezionale: un tir rosso che trasportava coil (una particolare bobina di acciaio), proveniente dallo stabilimento ILVA. Questo tir rosso fu ingoiato nel vuoto. Certo, non si può additare in questo la causa. Questa fu la goccia… questo fu il fattore “disgrazia”… l’elemento “fato”. A cui però, attenzione, inizialmente provarono, i responsabili, ad aggrapparsi.
Vediamo però come si è arrivati a questa holding Atlantia, gestore di autostrade.
La semi-privatizzazione
1997: governo Prodi. L’Italia puntava a entrare nell’Euro ma, per riuscirci, il bilancio di Stato andava risanato (il noto rapporto deficit/PIL). Per fare cassa, si diede l’avvio a una serie di privatizzazioni, si vendettero i gioielli di famiglia… tra questi: Autostrade, società che rende ottimamente. Un investimento che rendeva almeno il 7%, ma che nel corso degli anni arrivò al 12. Le proposte di interesse furono numerose, addirittura undici. Si trattava quindi un buon acquisto, ma con un rischio… e il rischio era rappresentato dal fatto che lo Stato potesse cambiare le regole sui pedaggi negli anni successivi. In conclusione, un solo candidato rimase in corsa: Schema 28, un gruppo che aveva tra i controllori i Benetton. Non a caso, il 16/9/1999 Il Sole 24 Ore pubblicò questo titolo: “Autostrade, Benetton in corsa quasi da soli”.
La scalata dei Benetton
Va precisata una cosa: Benetton rappresentava al tempo un’azienda dal volto nuovo e pulito del capitalismo italiano; quindi, che fosse Benetton a vincere, andava bene un po’ a tutti. Tra l’altro, non tutti gli investitori, anzi pochi, erano d’accordo nell’acquistare qualcosa che aveva implicazioni statali. Sia come sia, quell’acquisto rappresentò per i Benetton un grosso affare, un affare dagli alti guadagni. Quindi la Schema 28 (in maggioranza Benetton) possedeva nel 1999 il 29,7% delle azioni di Autostrade. Nel 2003, attraverso la Newco 28 (sempre controllata da Benetton) “venne lanciata un’Offerta Pubblica di Acquisto (OPA) su Autostrade”. Arrivò così a detenere la percentuale del 54,1% che, sommata al 29,7% portò a un controllo di oltre l’80%. Il 5 maggio 2007 il Consiglio di Amministrazione della holding Autostrade cambiò il nome in Atlantia. Nel giro di 9 anni, i Benetton si erano ripagati i debiti e controllavano una quota nettamente rilevante di Autostrade.
Il tentato accordo con gli spagnoli
I passaggi che, dalla semi-privatizzazione del 1997 portarono al disastro del 2018 sono molto complessi. Vi è però un altro punto importante da considerare: la tentata vendita agli spagnoli, intorno al 2006 (si trattava di un accordo tra due holding, una italiana, l’altra spagnola e, nell’accordo, la sede della compagnia doveva essere trasferito a Barcellona… e le tasse della compagnia sarebbero state versate in Spagna). Le autostrade italiane sarebbero state svendute agli spagnoli in cambio di un maxi assegno per i Benetton. Non c’era nulla di illegale, sia chiaro, ma politicamente era imbarazzante.
L’aut aut di Di Pietro
Tale passaggio agli spagnoli non andò poi a buon fine, e non andò così perché il governo italiano (a guida di nuovo Prodi) si era messo di traverso. Per la precisione, si era opposto il ministro delle infrastrutture (era Antonio Di Pietro) facendo notare “pedaggi troppo elevati, controlli sulla gestione quasi inesistenti e sanzioni di fatto inapplicabili”. Di Pietro dichiarò: “I Benetton volevano scappare con la cassa.” Sostanzialmente, il ministro mise i gestori di autostrade di fronte a un bivio: o frenate le tariffe dei pedaggi o decade la gestione.
Ma ecco il paradosso… chi intervenne in difesa dell’operazione vantaggiosa per i privati? Proprio quell’entità che Prodi aveva tanto sostenuto: l’Europa.
Un accordo ambiguo
La commissione europea ritenne che tale aut aut frenava la circolazione dei capitali (una delle leggi base della Comunità europea). Bruxelles minacciava l’Italia con procedure di infrazione. Si giunse così a un accordo: i privati promettevano investimenti e si dicevano soddisfatti; il governo aveva ottenuto una parziale vittoria, perché aveva stabilito un freno alle tariffe, sebbene molto limitata. In questo accordo risolutivo c’era il comma che emerse dopo il crollo del Morandi: la revoca della concessione non poteva essere applicata, o meglio, poteva essere applicata solo in cambio di un corposissimo rimborso, pari ai guadagni stabiliti fini al 2038. Ricordate cosa è accaduto dopo la tragedia? Il ministro delle infrastrutture Toninelli (c’era il governo giallo-verde) dichiarò che la concessione di autostrade sarebbe stata immediatamente tolta ai Benetton… che sarebbe stato tutto statalizzato… e ciò avvenne solo nel 2021… per il banale, noto, annoso motivo: le palanche.
Per approfondire: Laura Galvagni Autostrade in frantumi