Vacanze d’infierno: XXII puntata – Ritorno

Avevamo due sole giacche di nailon. Alla partenza erano tre, chissà dov’era finita la terza… Ho dato le due giacche alle mie figlie. Io, per scaldarmi, giuro, andavo ogni tanto fuori. Uscivo circa ogni mezz’ora, intanto fumavo e mi scaldavo. Poi tornavo dentro: mi raffreddavo e, quando non ce la facevo più, tornavo fuori.

Aeroporto di notte

Ci siamo sistemati su una fila di postazioni libere, seduti con le nostre borse tra i piedi. Come noi, molti altri viaggiatori stavano seduti; alcuni parlavano, alcuni con le cuffie alle orecchie, altri assonnati. Oltre i turisti, c’era tutto un via vai di gente che lavorava: chi sistemava e puliva i negozi chiusi, chi igienizzava i pavimenti. Tutti gli uffici delle varie compagnie aeree avevano le saracinesche abbassate. Ogni tanto si vedeva un’hostess o un’impiegata in divisa. Ma erano rare comparse. Per lo più era gente addetta alla pulizie. Quasi tutti si muovevano in un clima notturno, facendo ciò che dovevano fare, senza parlare.

L’attesa

Le mie figlie si erano gettate a capofitto dentro il cellulare. Stavano rannicchiate nelle ginocchia, cuffiette nei timpani, occhi sullo schermo, mute, senza cedere al sonno. Nessuno di noi ha dormito quella notte, neppure per qualche minuto. Io mi sentivo stranamente energico e non riuscivo a stare fermo. Mi sedevo, mi guardavo attorno, controllavo il cellulare, mi rompevo, tornavo ad alzarmi e così via. Guardavo l’ora. Più la guardavo più sembrava passare lenta. Erano le due circa. Cercavo diversivi. Per spassarmela, ho perlustrato in lungo e in largo tutto il salone dell’aeroporto.

La gente si adatta

Va detto che, mano mano che passava il tempo, più l’aeroporto si riempiva di gente. Si formavano a gruppi, come delle improvvise apparizioni. C’erano sostanzialmente due immense sale, divise da un’ampia vetrata. Percorrevo quello spazio avanti e indietro. Lo avrò fatto una ventina di volte. Ogni volta, notavo che c’era sempre un po’ più gente. Verso le quattro circa, quasi un intero salone era pieno di persone sedute o sdraiate ovunque. Molti, moltissimi dormivano. C’erano gruppi di oltre dieci persone che ronfavano sul pavimento. Alcuni, ben organizzati, si erano sistemati con zaini e coperte, creando dei piccoli campeggi, e si guardavano film al computer. Alcune coppie stavano abbracciate e si sbaciucchiavano. Se la faccenda si fosse prolungata, a mio parere, potevano anche organizzarsi delle orge.

Fissare i secondi

Mi muovevo, sostanzialmente, per combattere il freddo. Anche se, la soluzione migliore per scaldarmi, come dicevo, era uscire. Poi mi è venuta l’idea dei podcast. Così mi sono sintonizzato sulle lezioni di Barbero e ne ho ascoltata una che, tradotto in termini di tempo, significava più di un’ora. Verso la fine della spiegazione delle cause economiche che avevano portato alla Rivoluzione Francese, l’orologio mi segnalava che erano le quattro. Ho girato gli occhi verso gli uffici di imbarco e, a bocca aperta, ho notato che si era già formata una fila immensa.

Coda

Era una fila così lunga, una specie di lungo serpentone a curve, che non riuscivo neppure esattamente a capire dove iniziava e dove finiva. Una cosa era certa: era praticamente tutti per Ryan Air. Tutti abbastanza ordinati, ma non troppo. Non erano in coda uno ad uno, ma a gruppetti, per cui era facile che qualcuno facesse l’indiano (con tutto il rispetto per gli indiani!). A complicare la faccenda c’erano i trolley che, bene o male, ognuno aveva con sé. Ho fatto un breve calcolo mentale per tradurre quella fila in tempo, e sono corso ad avvisare la figlie.

Ansia

Così è cominciata la attesa in coda, che aveva almeno il vantaggio di offrire un diversivo. La cosa più divertente era osservare le facce della gente. A scansioni di circa pochi minuti, si avanzava; si spostava il trolley di qualche passo e il panorama di facce mutava. Una leggera ansia mi accompagnava: era il dubbio che i fogli sostitutivi dei documenti non venissero accettati. Tra me e me, mi dicevo: è tutto regolare, non possono non farci passare! Ma il dubbio (visto la serie di guai che avevamo affrontato) lo avevo. Quando è toccato a noi, ho consegnato il tutto all’impiegata. Lei ha esaminato le carte. Ho provato a spiegarle quanto successo. Lei mi ha guardato e mi ha detto di andare in un altro ufficio.

Soluzione

L’altro ufficio era dalla parte esattamente opposta. Qui la coda era breve: un 4 o 5 persone. Quello davanti a noi, con fogli alla mano, ha iniziato a discutere con l’impiegata. Il loro scambio di parole si è prolungato non poco. Non capivo esattamente cosa si dicessero, ma capivo che c’erano problemi. Lui insisteva; l’impiegata, imperterrita, spiegava. La mia ansia si era fatta ora forte. Quando è toccato a me consegnare le carte, ho provato a spiegare per l’ennesima volta la faccenda. L’impiegata mi ha guardato, ha guardato le carte; si è consultata con una collega che ha letto e poi annuito. Quindi l’impiegata mi ha messo il timbro. Avevamo il permesso di volare.

Ritorno

Una specie di nero groviglio si è sciolto nel mio stomaco. Ho abbracciato le mie figlie e ho detto: “È fatta!” Ho visto la gioia nei loro occhi. Non ne avevamo parlato, fino a quel momento, del sospetto, del timore, ma ora potevamo dichiararcelo. Siamo saliti verso i gate, in attesa dell’aereo.
Poi non è rimasta che l’attesa, quindi il volo. Loro si sono addormentate. Io no: io con gli occhi sbarrati e lo stomaco stretto per tutto il viaggio.
Alle nove siamo atterrati a Bologna. Eravamo sfatti.
La mamma ci aspettava in aeroporto. L’immagine più bella che mi rimane è… loro due che le corrono incontro.

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