1848: Le cinque giornate di Milano

Le cinque giornate di Milano: i giorni in cui il popolo milanese improvvisò una straordinaria lotta armata contro l’invasore.

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Cinque Giornate di Milano è una piazza, ma una piazza che rimanda, come ogni via o piazza d’Italia, a un personaggio o evento storico, spesso del Risorgimento. E le Cinque Giornate (18/22 marzo 1948) di Milano sono state uno degli eventi più esaltanti del Risorgimento: il primo pezzo del mosaico intorno a cui si è formata l’Italia per come noi oggi, nella sua unità (e nelle sue evidenti contraddizioni) conosciamo.
Cinque giornate durante le quali il popolo milanese (e, da Milano, altre città) si batté contro gli austriaci invasori: popolo contro esercito, combattenti creatisi lì per lì contro militari professionisti.

Uno strano sciopero

Ciò che avvenne in quei 5 giorni di scontro ha però un precedente molto particolare: una sorta di sciopero. Più che uno sciopero lo potremmo definire un boicottaggio. I milanesi si impegnarono nel colpire gli austriaci in modo pacifico ma efficace: smisero di fumare. Il motivo era semplice: il tabacco era fortemente tassato e quei soldi andavano nelle casse del governo austriaco. Si trattava quindi di una chiara forma di protesta. Non certo fondamentale sul piano economico, ma simbolica. Questo avvenne nel capodanno del 1948 (siamo oltre due mesi prima delle Cinque Giornate).
Bisogna immaginarsi quindi le strade di Milano piene di gente, ma nessuno con sigaro o pipa in bocca (né macubino, il tabacco da sniffare; la sigaretta ancora non esisteva). Solo i soldati austriaci fumavano. E mentre passeggiavano fumando e vedevano i milanesi non fumare capivano: capivano che quello non era una scelta salutista, ma una sfida.

Giro di voci

Non c’era Facebook. Non c’era WhatsApp. Non c’era alcun social media, eppure i milanesi erano riusciti a mettersi d’accordo in quella piccola forma di smacco, che continuò il giorno dopo. Era una sfida, era una provocazione, era un simbolico atto di rivolta contro gli invasori. E, presto, all’atto, seguirono commenti e battute, e possiamo immaginarci gli sguardi di sfida e gli screzi tra giovani milanesi e soldati austriaci. Un fatto è sintomatico: un soldato austriaco, mezzo sbronzo, provò a ficcare di forza un sigaro in bocca a una ragazza; il fidanzato intervenne in sua difesa; il soldato diede una spadata in testa al fidanzato (per fortuna non di taglio) e ne seguì un tafferuglio.
Era solo l’antipasto di quanto stava per essere servito.

Agli albori del Risorgimento

Va detto che il governo austriaco spiccava per ragionevolezza. Non si trattava di un governo dispotico, ma erano comunque invasori; questo non andava più bene ai milanesi. Anche perché circolava ormai da tempo l’idea di indipendenza e, magari, di unità d’Italia. I promessi sposi in fondo raccontano questo: i soprusi degli invasori. L’idea di un’Italia repubblicana (Mazzini) o confederale (Cattaneo) o monarchica (D’Azeglio), ma unita, era nell’aria. Su una cosa erano però d’accordo i milanesi: scacciare i tedeschi (così chiamavano gli austriaci) da Milano. E il potere nel lombardo-veneto in quel periodo era rappresentato da un uomo: il generale Radetzky, il quale era appunto governatore di questa zona. Comandava una forza armata di 80.000 uomini in tutto il Lombardo-Veneto, di cui 18.000 stanziati a Milano. Ed era disposto a usarli.

La prima giornata

La prima delle 5 giornate vide una gran folla che si era riunita, partendo dalla sede del municipio e, man mano che avanzava, si ingrossava di altri manifestanti. Stavano marciando verso il palazzo del governo e volevano chiedere al podestà (attuale sindaco) di mettersi in testa della colonna. Intanto un gruppo di manifestanti si era barricato nel Broletto (sede del municipio) lanciando tegole e mattoni. Lo scontro con l’esercito austriaco durò circa due ore e non vi furono morti, ma furono tutti incarcerati.
Radetzky pensava di aver chiuso così la questione ma si sbagliava. Il giorno dopo dalle finestre e dai balconi dei milanesi drappi, coccarde, bandiere con il tricolore.
Molte persone tra quei pacifici dimostranti, soprattutto giovani, scesero in strada pronti a combattere. Fucili e pistole erano in scarso numero, spesso si usavano pietre, tegole, spranghe di ferro, paioli d’acqua o d’olio bollente; si trattava di armi rare e non sempre efficaci. Ma il fuoco stava divampando.

Armi improvvisate

Una sorta di guerriglia si stava diffondendo in città. Le armi di difesa (barricate inventante lì per lì, con carrozze rovesciate o mucchi di pietre accatastate o altro) o di attacco (abbiamo visto) si stavano bene o male organizzando. A vantaggio degli insorti c’era il fatto che le vie erano in gran parte strette (diverse da oggi) ed era quindi più facile ripararsi dagli attacchi dell’esercito e chiuderlo in una morsa, quindi colpirlo dall’alto con pietre e altro. Tra i milanesi, quei pochi armati, dimostravano una eccezionale capacità combattiva e ogni soldato austriaco catturato si traduceva in un’arma in più per gli insorti.

Dilettanti contro professionisti

Un esercito di 18.000 professionisti messi sotto scacco da guerrieri improvvisati… era un fatto eclatante e difficilmente dimostrabile sul piano teorico. Forse la risposta più ragionevole è che quei soldati erano addestrati a combattere guerre, diciamo, regolari; lì invece si trattava di qualcosa che, sul piano tattico-strategico, usciva fuori da ogni previsione. Per qualsiasi generale, abituato ad affrontare lo scontro secondo i criteri “normali” della guerra, la guerriglia diventa facilmente un problema. Perché non riesci ad avere la minima idea di quale tattica userà il nemico. A questo va aggiunta la motivazione che spinge un uomo a combattere per un’idea, rispetto a un altro uomo la cui unica motivazione è lo stipendio. Per quanto possa apparire sorprendente, l’idea ti anima molto più dello stipendio.

Vittoria!

Nel quarto di quei cinque giorni l’esercito austriaco scelse di ritirarsi dalla città vecchia (aveva oltretutto problemi di approvvigionamento) per riorganizzarsi sulla cinta dei bastioni. Da qui iniziarono a lanciare cannonate. Si trattava di cannonate dimostrative (come dire “non ci siamo arresi”) e inefficaci. Ma qui subirono il contrattacco degli insorti. Essi concentrarono le proprie forze a Porta Tosa, riuscendo a usare un’altra novità: costruirono le barricate mobili. Si trattava di una sorta di grosso cilindro (fatto di fascine e corde) che spostavano in avanti, riparandosi con esso e avanzando. I soldati austriaci stanziati a Porta Tosa dovettero ritirarsi. Da quel giorno, quella porta, ci chiama Porta Vittoria.

Per approfondire: Luciano Bianciardi Antistoria del Risorgimento

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