Eugenio Montale: uno dei poeti più noti e importanti del Novecento. La sua persona, come le sue poesie, esprime il disagio di essere.
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La vita di Montale (a parte il fatto che è un notissimo poeta e che ha vinto il Nobel) non è degna di particolare nota. È una vita senza vicende o avventure minimamente straordinarie. Egli stesso di sé diceva di avere sempre “scritto come un povero diavolo e non da uomo di lettere professionale”. Lo vedi? Si presenta sempre dimesso, ma forse fin troppo dimesso. Forse questo eccesso di modestia cela un eccesso di superbia. E aggiungeva di non essersi mai sentito “investito di una missione importante”. Già in questo possiamo notare un atteggiamento completamente opposto a quello di D’Annunzio, che per eccellenza è il poeta vate, il poeta che agisce, che ha influenza sociale e addirittura politica. Montale invece si dipinge come uomo comune, addirittura, rispetto al fascismo, disse di avere posizioni vigliacche. Ma non è neppure vero questo, infatti aderì al “Manifesto degli intellettuali antifascisti” promosso da Croce. È proprio in questa posizione di anonimato che si caratterizza Montale come poeta, anche perché il tema portante delle sue opere è il disagio di essere. Quindi, come dire, si presenta in linea con la propria poetica.
Giovinezza
Ciò che caratterizza i suoi anni giovanili (e che sarà il timbro della sua prima opera poetica Ossi di seppia, il cui primo titolo era Rottami) è il fare i conti con la insensatezza dell’essere. Nonostante la sua adolescenziale passione per i poeti maledetti, come Baudelaire e Rimbaud, una vita maledetta non gli riesce. Non si ubriaca né usa droghe, non si disintegra in amori tormentati, evita avventure di ogni tipo: rasenta una vita modesta.
Nel 1917 (ha 21 anni) viene arruolato come allievo ufficiale. Gli fanno tre visite, una dopo l’altra, e a tutte risulta “rivedibile”. Quindi si ritrova sostanzialmente solo, in una Genova deserta di coetanei, dato che molti sono partiti per la guerra. Gira per la città, legge, scrive qualcosa, va in biblioteca e ancora legge. Fa insomma i conti con un incessante tedio e un grande senso di inutilità e vuoto che lo governa. Poi viene trasferito nella scuola di fanteria di Parma, dove conosce, tra gli altri, Marcello Manni, il futuro compositore di Giovinezza (il noto inno fascista).
Alla ricerca di un posto fisso
Finita la guerra, fa quello che bene o male fecero tutti: cercare lavoro. Ha la fissa delle scrittura, intanto ambisce semplicemente al “posto fisso”. Non è certo però il tipo adatto o intenzionato a fare lo scaricatore di porto, così cerca posto come giornalista. Si propone ai due giornali più noti all’epoca: Il Secolo XIX e Il Lavoro. Gli pubblicano qualche articolo, ma non si tratta di un vero e proprio lavoro.
Il posto fisso lo trova intorno ai 30 anni (sebbene si rivelerà mal pagato e poco fisso). Lo trova, non a Genova, ma a Firenze, dove è assunto presso la casa editrice Bemporad (sostanzialmente si occupava di testi scolastici). Tuttavia è scontento. Ettore Schimitz (in arte Svevo) gli aveva consigliato di tenersi lontano dalla case editrici, ma Svevo ragionava da uomo senza il minimo problema economico. Montale deve invece fare i conti con lo stipendio basso.
Direttore del Gabinetto Vieusseux
A Firenze però si trova bene, meglio che a Genova: frequenta letterati e ha una sommaria sistemazione. Una vera svolta professionale avviene nel 1929, quando viene nominato direttore (prima per 6 mesi e poi riconfermato) del prestigioso istituto culturale Gabinetto Vieusseux, dove si garantisce un discreto stipendio. La sua nomina è sorprendente, soprattutto se si considera che i posti ambiti andavano a chi era iscritto al Partito Fascista. E Montale non si iscrisse mai. Eppure non visse tale nomina con serenità, temeva si celasse una trappola. Sia come sia, questo posto gli garantiva, oltre all’equilibrio economico, la frequentazione della crème intellettuale.
Il licenziamento
Una interessante descrizione di Montale ce la offre Giovanni Ansaldo. Lo definisce esangue, dal volto sfiorito, impacciato nei modi, un uomo che sembra spaventato e disgustato dal mondo. Ma anche vanitoso e disinteressato alle cose altrui. Per quanto appaia modesto, è interessato solo ed esclusivamente alle proprie poesie. Secondo Ansaldo, la logica di Montale è semplice: chi dice male di me è una canaglia; chi dice bene di me è un grand’uomo.
Montale era probabilmente molto egocentrato e narciso, ma non sbagliava nella sua diffidenza verso il posto occupato presso il Gabinetto Vieusseux. Nel 1937 il Partito Fascista deve dimostrare e confermare la propria forza e inizia a fare i conti con chi è sospetto avversario. Montale viene convocato in questura e accusato di aver agito contro il partito. È inserito nella lista dei “soggetti a sorveglianza”. Da lì a poco sarà licenziato. Intanto pubblica il secondo volume di poesie: Le occasioni.
L’affermazione
Per circa tutta la fase della Seconda guerra mondiale, Montale lavora come traduttore, guadagnando poco. Con la fine della guerra riesce a trovare un posto presso Il Corriere della Sera. Ha oltre 50 anni e ancora aspetta e spera nel posto fisso. In effetti, dopo un’iniziale collaborazione come redattore saltuario, ottiene un lavoro stabile presso il Corriere. E sarà quello che lo accompagnerà fino alla vecchiaia. La sua fama di intellettuale e poeta inizia ad essere indiscussa. Riceve lauree ad honoris causa, viene invitato a conferenze, si infoltiscono le recensioni positive sulle sue opere. Vive oltre 80 anni, riceve il Nobel e ha addirittura il tempo di vedersi monumentalizzato nell’edizione completa delle sue opere.
Fine corsa
Ma la sua persona, se dobbiamo sintetizzare un ritratto dell’uomo, appare inafferrabile. Per certi aspetti risulta un meschino, un inetto; ma è anche vero che non si è mai piegato ai regimi. Ha rasentato i muri. Ha sempre ponderato con estrema cautela le scelte, senza azzardare mai nulla. Tra la sensuale Volpe (Maria Luisa Spaziani) e la materna Mosca (Drusilla Tanzi), sceglierà la comodità infermieristica della seconda, che poi sposerà. Ma morirà prima di lui e lui rimarrà solo. Varcherà la soglia degli Ottanta, elogiato, commentato, glorificato, si trasformerà in un dimesso vate.
Morì a Milano il 12 settembre 1981 e pare che le sue ultime parole furono: “Ho paura”.
Per approfondire: Giuseppe Marcenaro Eugenio Montale