Dostoevskij: l’arte del tormento

Fedor Dostoevskij: lo scrittore russo che ha saputo raccontare personaggi tormentati, sempre in bilico tra dannazione e salvezza, visse una vita di trionfi e tormenti.

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La vita di Dostoevskij (1821-1881) fu caratterizzata da un continuo alternarsi di alti e bassi. E questo può tutto sommato riguardare ogni vita. Gli alti e bassi di Dostoevskij furono tuttavia particolarmente elevati in altezza e rovinosi in caduta. Per dirla con le sue stesse parole: “Dio mi ha tormentato tutta la vita.”
Questo continua contrapposizione e alternanza di luci e ombre, per cui nel fondo di ogni luce c’è ombra e, in ogni ombra, luce, rimane il fulcro della sua visione complessa dell’esistenza, per cui in ogni evento c’è il riflesso di un senso più profondo. La vita si presenta come angosciato tentativo di coglierne il significato, e il significato è spesso trincerato nelle situazioni più buie.
Tutte le figure letterarie partorite da Dostoevskij sono d’altronde dei tormentati: solo precipitandosi nel proprio inferno trovano sé stessi.

Giocarsi la vita

Ombre e luci… rosso e nero… qual è la migliore metafora per definire questo continuo essere sul bivio della salvezza o della rovina, se non il gioco? La roulette che gira e la pallina che può arbitrariamente fermarsi sul rosso o sul nero, o sul pari o dispari, e il giocatore può perdere o vincere in un attimo tutto. Dostoevskij fu, diremmo oggi, un ludopatico, e il romanzo che meglio racconta questa sua pericolosa passione è appunto Il giocatore. Qui le sorti del protagonista sono semplicemente delegate alla fortuna, ma è anche evidente che il vero piacere non consiste nella vittoria, se mai, paradossalmente, nella sconfitta, ovvero nel momento in cui tutto precipita e si fanno i conti con la rovina. Ma, ancora più precisamente, l’apice del piacere sta in quella fase di sospensione in cui si ignora dove si fermerà la pallina.
La sola vera abilità di un giocatore di questo tipo consiste nel mettersi a rischio, il resto è fato o caso o, volendo, Dio.

Sulla soglia della morte

Intorno ai 20 anni, Dostoevskij seguì la carriera militare, ma era un solitario, un uomo che quasi si vergognava delle fortune e sperperava soldi in elemosina o divertimenti. Era sempre a corto di denaro (maledizione che lo perseguitò per tutta la vita). Nel 1844 ha 23 anni e scrisse il suo primo romanzo Povera gente. Fece avere il manoscritto al poeta Nekrasov e passò giorni in attesa del responso. Il responso fu ottimo. Nekrasov fece avere il testo al famoso critico Belinskij, recensore severo. Ma, di nuovo, il responso fu più che positivo. La sua carriera di scrittore cominciò nel migliore dei modi: subito apprezzato, elogiato. Scrisse Le notti bianche e, da subito, doveva creare forsennatamente, perché ogni sua opera era anticipatamente venduta e doveva scrivere altro. Ma, una notte, si presentarono a casa sua degli ufficiali e lo arrestarono. Venne tenuto in una cella per quattro mesi, senza conoscerne il motivo. L’accusa consisteva nell’aver partecipato a discussioni di alcuni rivoltosi. Sospetta cospirazione, quindi. Si trattava di un equivoco, eppure venne condannato alla fucilazione.

La vertigine

Ecco un caso di come può fermarsi la pallina sul rosso o sul nero: una semplice combinazione di fortuna o sfortuna. Una mattina all’alba, insieme ad altri nove compagni, gli fecero indossare la camicia mortuaria, lo legarono a un palo e gli bendarono gli occhi. Lessero la sua sentenza di morte.
Come egli stesso scrisse: “quei cinque minuti sembrano interminabili…”
Provate a immaginare cosa può provare un uomo in un momento simile… lo ha descritto bene Sartre ne Il muro: premere con la schiena su una parete che avverti invalicabile e prepararsi al buio. Qualche secondo poi… poi venne letta la sentenza di grazia. La condanna fu tramutata nella prigionia in Siberia.
Ma vale la pena di ragionare su un’altra sua considerazione in proposito: “L’assassinio legale è assai più spaventoso di quello perpetrato da un brigante.”
E’ a questo episodio che va associato l’inizio della malattia con cui dovette fare i conti in seguito: l’epilessia.

Tentativo di ricostruzione

Prigioniero in Siberia, tra veri criminali e disperati, in una situazione terribile, per quattro anni, ma resse l’urto. Anzi, in quel periodo conobbe una donna che sposò, una strana donna, malata: Maria Dimiitryevna Isayevna. Inoltre scrisse Memorie da una casa morta, resoconto della prigionia, testo che, tornato a Pietroburgo, diventò un successo. Addirittura venne apprezzato dallo zar in persona. Dopo che era stato dimenticato, ritornò alla gloria. Insieme al fratello Michail, fondò un a rivista di successo. Ma, ancora per equivoci politici, la rivista venne interdetta. E intanto morì sua moglie e, poco dopo, suo fratello. Si ritrovò pieno di debiti e tentò in tutti i modi di sanarli, ma inutilmente: la soluzione fu la fuga.

L’esilio

Iniziò una lunga fase di esilio in Europa (anni tra il 1866 e il 1871). Esilio per due fondamentali motivi: 1) vi era costretto per ragioni economiche; 2) soffriva la lontananza dalla madrepatria. Viveva in alloggi miseri e doveva continuamente scrivere, perseguitato dai debiti, per soddisfare le richieste degli editori, per cui scrisse opere magistrali in pressanti restrizioni di tempo. Si spostò tra Francia, Germania e Italia e fu in questo periodo il picco della sua dipendenza da gioco. Cominciò con l’idea (chiaramente malsana) di vincere per coprire i debiti e finì in un vortice di ulteriori debiti. Raggio di luce in questo buio fu il matrimonio con la sua giovane stenografa, Anna Grigor’evna, la quale non fu solo un sostegno emotivo, ma anche professionale. Condussero però insieme una vita misera. Gli nacque una figlia e morì a soli tre mesi. In Germania, dove a lungo visse, nessuno lo conosceva. Era noto solo in banca, dove andava spesso sperando in qualche assegno dalla Russia. Altro luogo che frequentava era il Monte di Pietà, dove aveva impegnato addirittura un paio di pantaloni. Fu in questa fase che scrisse Delitto e castigo, L’idiota, I demoni, Il giocatore.

Fine corsa

Nel 1873, a 52 anni, distrutto dalla malattia e dalla miseria, ma ormai riconosciuto come grande scrittore, poté tornare in Russia. Ufficialmente acclamato come genio nazionale, scrisse Diario di uno scrittore, testo dai forti accenti reazionari e anti-semiti. E in patria scrisse anche un altro capolavoro: I fratelli Karamazov.
Morì il 9 febbraio 1881. Al suo funerale parteciparono migliaia di persone. Una folla immensa che premeva per dargli l’estremo saluto; tanto che la sua bara, nella ressa, vacillò.

Per approfondire: Stegan Zweig Dostoevskij

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