Stendhal: l’arte di nascondersi

Non è semplice delineare la figura dell’uomo chiamato Stendhal, per quanto, in fondo, si tratti di un uomo assolutamente “normale”. Non ci sono episodi eclatanti né nella sua vita né nella sua morte. Nulla di particolarmente eroico da segnalare, nessuna particolare stranezza. Se non una curiosa passione per la bugia. Egli era infatti esperto nel nascondersi.
Tanto per cominciare, il nome Stendhal è un falso. Si chiamava Henri Beyle. Ma dietro lo pseudonimo Stendhal, vi sono altri numerosi pseudonimi. Finora, i biografi ne hanno contati oltre 200. Nelle lettere si firma in molti modi diversi; falsifica le date, i luoghi da cui scrive; mente su ciò che ha fatto, mente sulla propria posizione sociale, mente sul proprio lavoro. E, per finire, l’ultima delle beffe: mente anche sulla propria tomba, dove sta inciso “Arrigo Beyle, milanese.”

Il signor Beyle

Per la precisione, egli aveva lasciato scritto di incidere questa frase sulla propria lapide: “Arrigo Beyle, milanese. Visse, scrisse, amò.” Frase che risulta un misto di bugia e verità.
Non era per niente milanese (anche se amava molto Milano), essendo di Grenoble, dove era nato nel 1783 (era un po’ più giovane di Foscolo, per intenderci).
La sua tomba fu poi trovata da un studioso a fine Ottocento, il quale realizzò chi si celava dietro quella lapide. Sulla tomba di Stendhal, ora trovereste altre scritte. Ora si tratta di una tomba più celebrativa, più sontuosa. Ma in quella originaria lapide, voluta da lui, c’è il sunto del suo personaggio: un misto appunto di bugia e verità. Infatti monsieur Beyle, per quanto amasse nascondersi, altrettanto amava esporsi. Pochi come lui hanno cercato la verità e hanno confessato verità intime su sé stessi, anche le più scabrose e imbarazzanti. Scrive di sé: “Chi fui? Chi sono? Sono imbarazzato nel dirlo.”

Un uomo schivo e solitario

Stendhal (chiamiamolo così) si piaceva poco fisicamente. Avrebbe voluto essere alto, snello, con una figura nobile. Invece era piuttosto basso e (cosa che deprecava) aveva le gambe corte. Inoltre aveva quella faccia larga (che lui definiva da “borghese”), quel naso per niente austero; quegli occhi piccoli (da soldato, lo soprannominavano “il cinese”). C’era qualcosa di volgare, di dozzinale nel suo aspetto. Si sentiva poco attraente già da giovane; figuriamoci verso i 40… 50… quando ormai era mezzo calvo e doveva agghindarsi con una parrucca; quando doveva mettere il panciotto per frenare l’adipe che debordava. Ma dietro quell’aspetto goffo si nascondeva un animo delicatissimo, un’intelligenza arguta, una particolare capacità di analisi. Amava tanto l’Italia e amava tanto le donne. Ma con le donne ebbe sempre scarso successo. Era in fondo un timido. Non si sposò mai, non ebbe figli. Visse una vita in gran parte solitaria.

Un egregio imboscato

Riguardo il suo lavoro, era quello che oggi definiremmo un dipendente statale. E, va precisato, non certo uno che prendeva con rigore il proprio lavoro. Se poteva, lavorava poco e cercava di svignarsela. Anche durante il servizio militare sotto Napoleone, evitò in tutti i modi di andare in prima linea. Vide la guerra, sì, ma a debita distanza, e la trovò sostanzialmente noiosa. Era quello che i militari definirebbero “un imboscato”. Ma lui rideva dei loro principi di virilità. Non ebbe mai grandi passioni eroiche; se ne fregava in fondo di Napoleone, se ne fregava della Francia e dello Stato. Ma se ne fregava anche della letteratura e di quel mondo di chi si crede importante in quanto scrittore.
Ciò che fondamentalmente amava era l’arte. Molto meglio un concerto di Mozart che l’esaltazione in battaglia. Molto meglio le belle donne dei salotti milanesi, che la noia dei dialoghi intellettuali.

Un geniale mascalzone

Come scrittore non ebbe sostanzialmente alcun successo in vita, se non, vicino alla morte, una critica positiva da Balzac. Per il resto, rimase quasi ignorato dal mondo letterario.
Amava scrivere, ma senza proclami. Anzi, era un po’ mascalzone. Truffò infatti idee di altri scrittori. Per esempio, pubblicò la Vita di Haydn, rubando il testo a un autore italiano, tale Giuseppe Carpani. Anche la sua Storia della pittura italiana fu in gran parte rubacchiata qua e là. Ma certo non lo fece per gloria, semplicemente per racimolare denaro, che non bastava mai.
La prova che non scriveva per ambizione letteraria sta nel fatto che non pubblicò mai nulla con il proprio vero nome. Pubblicò testi di economia, di psicologia sull’amore, di critica letteraria (sempre prendendo qua e là), con i più svariati pseudonimi e sempre per tirare su un po’ di guadagni.
Ma i romanzi per cui oggi è noto (i grandissimi Il rosso e il nero e La certosa di Parma) passarono sostanzialmente inosservati. Come dicevamo, solo Balzac apprezzò pubblicamente La certosa di Parma.
In una lettera a Balzac, Stendhal scrive: “Non so davvero se merito essere letto. Trovo qualche volte grande piacere nello scrivere. Ecco tutto!”

Fine corsa

Ma, forse, anche in questa modestia fingeva. Di sé come scrittore annotò: “Sarò capito nel Novecento.” E questa fu una delle sue previsioni azzeccate. L’altra riguarda la propria morte. Scrisse: “Non trovo che ci sia niente di ridicolo a morire per strada, sempre che non lo si faccia intenzionalmente.”
Morì nel 1842, a 59 anni, a Parigi, in strada. Mentre avanzava con il proprio bastone, si piegò di colpo e crollò. Un mese prima aveva avuto un primo infarto; quello fu il secondo, e fu letale.

Per approfondire: Stefan Zweig Stendhal

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