Dentro la poesia (12): Luciano Neri – Poesia come ricerca

Luciano Neri (Genova, 1970) è curatore della collana di scritture di ricerca Il laboratorio per l’editore L’arcolaio. Ha collaborato al progetto “Specific reading conditions” con gli artisti e scrittori Pasquale Polidori e Michele Zaffarano per un diverso approccio alla ricezione della lettura. Ha pubblicato suoi testi su diverse riviste italiane on line e cartacee e, più di recente, su L’immaginazione (n. 322) e su Gammm. Una breve micro-finzione dal titolo “Il pegaso alato” è inclusa nell’antologia L’ordine sostituito (Declic, 2024) a cura di Carlo Sperduti. Ultime uscite in volume: Discorso a due (L’arcolaio, 2019), Autoreverse (Tic, Chapbooks, 2022), Upday (Scalpendi, Assemblaggi e sdoppiamenti, 2023) e Tiro alla fune (Zacinto, Manufatti poetici, 2024).

Teroni

In un’intervista sostieni che c’è uno stretto legame tra “insopportabilità dell’esistenza” e “spinta a scrivere”. Ti chiedo una cosa che è già emersa più volte in questi dialoghi: scrivere è una forma di cura o, come tu dici, una via di fuga?

Neri

Tale accostamento, spinta a scrivere e insopportabilità dell’esistenza, risale a un’intervista di qualche anno fa apparsa on line. nel frattempo, però, l’idea che mi sono fatto di scrittura rispetto anche a pochi anni fa è cambiata, direi radicalmente, e oggi non mi sentirei più di convalidare una tale affermazione. Tale legame, infatti, era rintracciabile in una scrittura poetica che avevo tentato di perseguire, con il senno del poi, con poca consapevolezza del rapporto che potrebbe/dovrebbe intercorrere tra arte e società. Anche la scrittura come via di fuga e/o forma di cura mi è distante, pur avendola assecondata, in passato, in relazione a diverse esperienze di viaggio nel Mediterraneo, poi confluite in una raccolta dal titolo Figure mancanti. Quelle scritture, tendenzialmente liriche, nel senso di un soggetto come centro espressivo di un dettato in versi, come fonte che andava registrando i dati sensibili intorno agli accadimenti, nascevano da alcune suggestioni filosofiche intrise tuttavia di fenomenologie negative. L’assunto di riferimento riguardava la perdita da parte dell’uomo della possibilità di fare esperienza e l’incapacità soprattutto di poterla raccontare in modo nuovo. Ciò oltretutto andava a coincidere, in quel periodo, con la crisi più acuta del genere poesia, in bilico tra (tanto, troppo) versoliberismo e (pochissimo) neometricismo, con forme intermedie di tipo poematico (racconto in versi, macro-testi).

E ritieni che la poesia attuale sia ancora così lirica?

La stragrande maggioranza delle scritture poetiche di oggi, specie quella che si trova a scaffale, ma basta leggere con attenzione anche alcuni studi recenti che a quel tipo di poesia fanno riferimento, è ancora permeata di questa negatività, proponendo un individuo in crisi che risponde a una tale condizione rappresentando sostanzialmente la perdita della sua centralità sociale, individuale e politica. Sempre in quegli studi è possibile riscontrare una rappresentazione di istanze liriche e di poetiche individuali che evidenzia implicitamente una regressione delle forme e degli stili. Anche, e soprattutto, quest’ultimo aspetto mi ha spinto a ripensare a una nuova modalità linguistica e testuale di affrontare la scrittura che avesse a che fare il meno possibile con tutta quella poesia derivante dai poeti storicizzati del primo e del secondo ‘900, a parte le avanguardie, cercando di bypassare il rischio di ogni tentativo di epigonismo.

Quindi ti sei allontanato da quell’idea di scrittura come cura?

Se scrivere poesia significa prendersi cura di una soggettività corrispondente all’io che agisce enunciando allo stesso tempo sul lato del contenuto e su quello della forma al fine di trovare un’unità irrisolta sul piano dell’esperienza individuale, rispetto a temi egoriferiti riconducibili a un unico punto di vista, è un tipo di conforto che faccio fatica a riconoscere, a considerare dal punto di vista creativo, come prodotto tra scrittura e società.

Un’altra cosa che mi ha incuriosito il tuo porre un nesso tra “scrittura” ed “esperienza”. Cosa si esperisce scrivendo?

Anche questo binomio mi suona estraneo, ormai, nel senso classico del termine che normalmente gli viene attribuito. Più che nesso tra scrittura ed esperienza, parlerei oggi di nesso tra scrittura e discorso, tra lingua (usata in modo creativo) e società. Non si tratta neppure di un discorso del tutto nuovo, partendo da lontano, dalle avanguardie storiche, ma è l’unico che possa aprire a nuove possibilità testuali di scrittura e di lettura, anche e soprattutto grazie alle scritture di ricerca, che in Italia sono molto attive. E sono d’accordo ancora con quei pochi teorici, perlopiù di estetica, che ritengono l’opera d’arte un prodotto sociale e non individuale, che dovrebbe avere la funzione di mettere in relazione creatività linguistica e storia, scrittura e realtà. L’esperienza da perseguire, dunque, a mio parere, è di tipo linguistico e testuale, agire attraverso forme e azioni sperimentali, non ancora esperite se non nel momento in cui accadono, cioè in contrapposizione a un discorso che riguarda i dispositivi di potere nelle sue diverse emanazioni, veicolati da quei linguaggi ai quali si affidano. Intendo quindi la scrittura alla stregua di un’azione intesa come atto comunicativo, anche ideologico e neanche troppo in senso lato, perché no. Dietro a ogni scrittura, e ciò include anche quelle poetiche, si fa sempre riferimento a una ideologia, volente o meno, nessuna ne rimane esclusa.

Cos’è per te l’ispirazione?

Se parto dalla definizione che si trova in rete e che intende l’ispirazione come un impulso riconducibile a fattori singolari o privilegiati, irrazionali o fortuiti, sia essa diretta verso una scelta pratica o verso la formazione di un prodotto artistico come vorrebbe essere la poesia (Wikipedia), sembra di trovarsi davanti a una persona in preda a un fuoco soprannaturale, eccitato davanti alla propria esaltazione per aver rivelato un momento creativo irripetibile, di accensione intuitiva come momento di verità del sentire e prova inconfutabile della straordinarietà del messaggio che si è captato rispetto a una sensibilità unica nel suo genere. Ovviamente è un po’ esagerato, ma neanche troppo. Credo abbia a che vedere, tutto ciò, con chi considera il fare poetico quale veicolo di autenticità, per cui è prevista una corrispondenza tra ciò che l’autore sente e scrive di sé, ponendosi al di sopra dei linguaggi ordinari, come vuole sia la poesia ispirata, attraverso un linguaggio poco comunicativo, individuale e sovra-storico, riponendo un potere espressivo nella poesia totalizzante.

Quindi, se ben capisco, rifiuti il concetto di “ispirazione”?

Credo si tratti ormai di un mitologema superato, ancora tardo decadente, ancora pseudo romantico, funzionale solo ad alimentare un certo egotismo o, se vogliamo, quell’immagine del poeta-vate che non è per niente scomparsa dai radar. Ritengo invece molto più creativa una diversa logica di considerare la scrittura eliminando da essa, prima di tutto, le componenti spontanee dell’espressione, di un certo impressionismo, di una poesia eccessivamente concentrata intorno alla retorica letteraria, nei casi migliori; evitando una prospettiva di enunciazione riconducibile a un unico punto di vista, che si impone sul testo imprimendolo poi al discorso con la D maiuscola. Associo dunque l’ispirazione a quella scrittura poetica di derivazione lirica che si regge su una prima persona che parla di ciò che sente rispetto all’espressione della propria vita interiore che poi ne è il riflesso esterno, nello slancio verso l’unico soggetto a cui si rimanda, nello specchio duale io-tu, concependo così la natura convalidata del suo mondo sovrasensibile e intimamente straordinario.

Mi pare che un poeta di tuo riferimento possa essere Ungaretti. E’ così? E, se sì, perché? In che modo?

Forse in un passato, adesso non direi. Ho letto Ungaretti come la maggior parte dei ‘grandi’ poeti dello scorso secolo. Anzi, direi che a mente li ho letti, chi più chi meno, proprio tutti gli esponenti della poesia moderna centrata sull’autorialità. Diciamo che Ungaretti lo insegno a scuola ai miei alunni quando si parla della Grande Guerra, si limita a questo, a quel contesto, come testimonianza. Nella scrittura quello che mi interessa davvero osservare, e soprattutto leggere, sono i linguaggi contemporanei, specie quelli che si mescolano con la comunicazione e poi con i generi letterari, come si muovono o si insinuano su dei concetti che poi diventano di uso pubblico, codificando quei messaggi solo in apparenza facili da decodificare, per via della forma degli stessi linguaggi e dei media che utilizzano, e di cui siamo fruiti, volenti o meno, pensando invece di esserne i fruitori consapevoli. Così ormai pervasivi nella loro sottile logica da confondere le idee e disorientare, abbassando i livelli cognitivi degli individui e fomentando l’aggressività, la violenza, l’insoddisfazione e quant’altro.

E quindi, qual è l’approccio che ritiene più adatto alla poesia?

Non credo affatto che si possa diventare/essere poeti solo perché si è a contatto con il consumo quotidiano di poesia, perché si sta leggendo questo o quello, perché si legge da anni, imitando o derivando da modelli certificati dalla letteratura con la L maiuscola, mi sembra una posizione ingenua. Il discorso è più complesso, e non si può ridurre all’individualità del singolo, del poeta quale specchio di un sentire comune, occorre invece misurarsi con i linguaggi della contemporaneità e con i generi testuali e formali da cui si alimentano/derivano, per disinnescare/scompaginare/smontare certe logiche, anche pensando a una nuova modalità di approccio alla lettura. Chi tende a valorizzare questa ambizione, sentendosi parte di quel sistema che poi è quello di una logica della mercificazione, continuamente alimentata e sollecitata da più parti, ritengo sia fuori strada.

Mi pare di intendere che sia fondamentale per te evitare l’epigonismo.

Scrivere come Montale, come Ungaretti o come Caproni, a continuazione del loro stile, sotto la cappa della loro autorialità, oggi non avrebbe senso, se non per tendere a quell’omologazione a cui aspirano, in senso divulgativo, molte di quelle scritture poetiche che però rinunciano a ogni tentativo di rinnovarsi, e che si vogliono far apprezzare non tanto poi su un piano formale, tra le altre cose, quanto su un piano del riconoscimento sociale per interposto autore. Il super-genere poesia oggi, dove dentro ci può stare veramente di tutto, è sancito appunto dalle regole del mercato che sfrutta, del piccolo emisfero poetico, l’appetibilità di un valore simbolico che la poesia ancora oggi esercita, a suo modo. E qui Adorno aveva visto lungo. Per cui, e concludo la mia risposta, oggi Ungaretti o chi per esso, può solo servire a quel sistema per esercitare una tendenza su quegli scriventi che vivono appunto il valore della poesia come una missione, come un’illusione di superamento del modello da cui si è stati indirizzati o chiamati in causa alla ricerca della verità, per familiarizzare con quei percorsi già riconosciuti e storicizzati. E’ su questa logica di mantenimento del patrimonio culturale che si ripropongono cloni rispetto ai più noti e ai più simili, a partire da quelle figure meritorie che la memoria storico-letteraria conserva all’occorrenza e pertanto poi ne vengono riproposti i simulacri, ristabilendo daccapo l’ordine delle aspirazioni tra gli innumerevoli imitatori ma ostacolando, allo stesso tempo, l’avanzamento di nuove proposte.

Mi puoi raccontare, proprio dal punto di vista tecnico, come nascono le tue poesie, se riesci a individuare, diciamo così, una procedura.

Non ho un unico modo di procedere, ogni testo fa storia a sé in termini compositivi/assemblativi/installativi. I miei ultimi lavori sono differenti l’uno dall’altro, per concezione e svolgimento, per scelte ed effetti testuali rispetto al lettore. Di solito parto da un’idea sulla quale inizio a riflettere, anche per qualche tempo, cercando di schiarirla, di circoscriverla. Procedo per appunti scritti, per registrazioni vocali, tutto quello che mi viene in mente. Ricerco in un campo di possibilità partendo da un’enciclopedia di testi e di discorsi dai quali inizio a leggere, a selezionare, ad attingere. Qualcosa di simile alle registrazioni sonore e vocali di un conoscente di W.S. Burroughs, che custodiva un archivio imponente di migliaia di voci registrate nelle situazioni di vita più disparate. Intendo quindi per enciclopedia quell’enorme libreria di titoli e di generi che sia il frutto di una circolazione di testi che contengono tutti i discorsi prodotti da una comunità, che per legittimazione e delegittimazione si presentano come intertestuali (Eco), al fine di metterli in relazione, per valutare/comprendere la loro risposta rispetto alla funzione che intrattengono o hanno intrattenuto con il loro tempo storico, e non solo in senso diciamo costruttivo.

Quindi hai un tipo di approccio che varia di volta in volta?

Non seguo delle regole predefinite, degli schemi formali, un’estetica in particolare. Seguo piuttosto delle procedure, che non sono mai le stesse da un testo all’altro. Non è un lavoro di artigianato al fine di perfezionare uno stile. Se l’idea inizia a spingere con una certa insistenza e ad aprire possibilità testuali e linguistiche questo lo si può vedere solo strada facendo. Spesso quindi un testo si sviluppa sulla base di altri testi, di altri discorsi, non necessariamente poetici, anzi quasi mai direi, piuttosto in relazione con altre arti (cinema, musica, teatro). A fare la differenza poi è l’ultima selezione dei testi o parti di testi e discorsi che inizio a leggere più approfonditamente intorno all’idea che a questo punto è già in azione di scrittura, che di solito prima è tematica e poi di contenuto, se così si può dire. La rete anche è parte di questa enorme enciclopedia, producendo discorsi come una macchina testuale inesauribile. Quando, a un certo punto, a intravedersi è il contenuto inizio a lavorare sul testo seguendo quella procedura grammaticale e linguistica che è andata configurandosi durante il lavoro di ricerca. Ma anche qui non è possibile essere precisi rispetto ai vari momenti in cui il testo avanza.

Mi pare un lavoro in cui è fondamentale la costruzione e il montaggio.

La lettura più della scrittura in sé, in ogni caso, resta operazione fondamentale. Prima si selezionano frasi, parole, immagini di un possibile contesto o di una cornice se si preferisce, di una o più situazioni, e poi si valutano gli sviluppi rimontando, facendo prove, tentativi. Si tratta anche di concentrarsi su delle procedure interdiscorsive e intertestuali in riferimento al tema. Ultimamente la mia attenzione è rivolta ai regimi totalitari, soprattutto al fascismo, che ci riguarda da vicino. Di solito poi è un lavoro in cui procedo pensando in prosa, perché con la poesia non potrei contare sulle stesse possibilità, per orientare diversamente la lettura/scrittura, per liberare forme testuali e linguistiche inscritte e altrove consolidate. In estrema sintesi, il testo è un insieme di stratificazioni interdiscorsive e intertestuali per far apparire qualcosa del discorso che è rimasto nascosto o volutamente occultato.

Visto che ogni testo ha avuto approcci diversi. Parlamene singolarmente.

Autoreverse si è sviluppato come su i due lati di un nastro sui quali erano impressi discorsi, o minime parti di essi, frammenti, parole, impliciti, immagini, oggetti, azioni, insieme a un soggetto che si muoveva in un modo asincrono rispetto al suo presente, uno in un tempo reale e l’altro in uno differito, o più semplicemente sull’altro lato di quello stesso tempo. Un nastro che procedeva in avanti e indietro, che si arrestava, riprendeva, cambiava lato. Come un nastro ritrovato in una vecchia scatola di audiocassette. Le parole e le frasi incise sui due lati, praticamente mai coincidenti, sono state selezionate con tecniche di decoupage, di ritaglio, in un primo momento, e poi tali segmenti ridisposti sulla pagina, a volte casualmente, a volte no. A quel punto il testo è andato avanti da solo replicandosi, anche mutuandosi in più situazioni, storiche, finzionali, biografiche, e riemergendo con un grande rimosso storico, ossia ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Questo almeno mi sento di dire. In questo dispositivo c’è ancora qualcosa di biografico e soggettivo, tramite momenti di accensione appercettiva, ma è anche un dispositivo allusivo, composto frase dopo frase, con innesti volti a depotenziare una lettura lineare, narrativa.

E Upday?

Upday è nato in modo casuale, durante una vacanza in Grecia, su un’isola del Golfo Saronico (Spetses), iniziando a registrare e contemporaneamente a scrivere quanto andava accadendo all’interno di quella cornice, una baia, considerata da due prospettive, prima da una e poi dall’altra. Riprendendo la realtà inquadrata e inserendo parti di discorso tratti da notifiche che apparivano sull’iphone durante i momenti di rilettura e correzione. La domanda poi è stata, a un certo punto: come riportare sulla pagina la forma appena acquisita di realtà? In una forma poetica versificata oppure in prosa, agendo sulle percentuali di ingrandimento e di rimpicciolimento della schermata scritta coincidente con la vita all’interno della baia? La scelta è stata per ciò che si poteva ritenere più oggettivo, perché agendo nella riduzione del già scritto sul file con lo zoom, nella forma del verso si andava perdendo il testo, dilatandosi in modo sproporzionato, mentre con la prosa il testo si ristabiliva su delle proporzioni più attendibili rispetto alla rappresentazione, mentre con il verso si entrava nel campo dell’immaginazione, che non era ciò su cui l’idea di ricerca mi voleva orientare. Quindi Upday non è solo un testo sul rapporto tra oggettività e soggettività rispetto ai dati in tempo reale, esso riguarda la trasparenza dell’oggetto a cui la scrittura fa rifermento, l’opacità se vogliamo, rispetto ai fenomeni interni all’immagine e ai fatti esterni a cui sono collegate, i fatti del mondo in simultanea che vi sono entrati giocoforza nella loro casualità, invisibili al momento e provenienti da un’altra fonte non del tutto definita.

Infine l’ultimo: Tiro alla fune.

Tiro alla fune, edito all’inizio di quest’anno nella collana dei Manufatti poetici di Zacinto Edizioni, agisce invece su una linea narrativa già in origine e in primo grado con tante lacune rispetto alla vicenda storica vera e propria a cui fa riferimento, che viene riscritta giocando sui vuoti che essa non ha mai rivelato se ci si basa sulle fonti storiche esistenti. In questi vuoti il testo, che si legge come un’unica sequenza, si costruisce agendo su un’immagine fissa attraversata da carrellate, da piani sequenza, da campi di forze, nel quale ha luogo una messinscena, un’installazione di corpi, con un pubblico che osserva e partecipa, con un continuo fraseggio di discorsi rispetto a ciò che sta avvenendo e a ciò che è già avvenuto. E’ un testo completamente in esterni, per i lettori eventuali, volendo far percepire che quell’immagine, nel caos in cui si rigenera, in realtà è sempre ben presente, è ancora in mezzo a noi, come testimoniano i fatti di Pisa.

Secondo te, cosa caratterizza la scrittura che definiamo “poesia”? Cosa la distingue dalle altre forme espressive?

Non so rispondere con esattezza a questa domanda, avendo molti dubbi, tra l’altro, che in molti casi si tratti davvero di poesia oggi quella che prende le mosse a partire da una tradizione storicizzata o da un canone, quella che poi in rigetto alle avanguardie ha ripreso piede dagli anni ‘70 come espressione libera di sé. E’ una domanda complessa, che coinvolge un genere che ha subito tanti rivolgimenti formali stilistici e di genere dall’Ottocento ai nostri giorni, perdendo progressivamente tutte quelle caratteristiche che nel tempo ne avevano definito la riconoscibilità. Oggi direi che ne è rimasto il fantasma poetico di quelle esperienze. Ci vorrebbe uno studioso molto più accreditato per rispondere a questa domanda. Posso solo aggiungere che la poesia, per come la si possa intendere, conserva ben poco rispetto alla tradizione cui pure sostiene di affiliarsi. Diciamo che la dinamica del genere ha sempre vissuto all’ombra di una ambivalenza basata sull’inclusione e sull’esclusione, questo fa tradizione/canone e continua, questo non fa tradizione/canone e si esclude. Alla base ci sono sempre delle scelte di campo. Lo stesso vale per i generi, che almeno hanno il vantaggio di poter essere ricollocabili, scambiabili, rifunzionalizzabili, di poter essere mescolati, di rialimentarsi in un ibrido, essendo la loro evoluzione normata fino a un certo punto, essendo mutevoli e potendo entrare in correlazione con altri testi e altre forme d’arte non necessariamente poetiche e letterarie. Comunque sia, data per scontata la fine di quel modello prescrittivo che subordinava la poesia a un sistema di regole predefinito di regole formali e compositive nel rispetto e/o nel superamento di norme, cosa è rimasto a disposizione per chi scrive poesia oggi? Onestamente credo ben poco.

Insomma, trovi poco di veramente interessante.

Se si leggono attentamente alcuni poeti che vanno per la maggiore, pur versificando, quello che alla fin fine scrivono sono prose, pensieri in versi, spesso confessionali, se poi si avventurano a forzare la retorica i risultati possono anche essere più difficili da commentare. Alcune scritture di ricerca contemporanee riflettono ancora e hanno riflettuto da venticinque anni a questa parte sulla debacle della testualità lirica, sui punti di progressivo scollamento testo/rappresentazione. In fondo, se pensiamo al primo statuto su cui poggia il testo lirico, che è il soggetto della prima persona, anche quando a parlare magari è una seconda, o un personaggio dietro il quale si cela l’autore, le parole in versi enunciate sono quelle di una persona che non sempre si accontenta di affermazioni immediatamente comunicative, creando di fatto una frattura tra storia e individuo, tra individuale e collettivo. Per questo motivo è un genere che pratico come margini, per altri campi, non sapendo più esattamente che cosa sia.

Lo stile tuo, diciamo più recente, è qualcosa che sfugge in qualche modo alla poesia ma anche alla prosa. Quali sono i maestri del tuo primo modo di scrivere e quali di questo secondo modo di scrivere?

Il mio stile, ormai, è non avere stile. Ironia a parte, per quanto sia d’accordo con quanto disse a suo tempo Edoardo Sanguineti, diciamo che la scrittura è per me come quella di uno che non ha più saputo/voluto scrivere poesia e alla fine non si è più illuso di saperlo/poterlo fare. Non guardo neanche all’estetica del testo, nel senso di un testo ben confezionato, riconoscibile per una qualche forma già data. La maggior parte della poesia mi annoia, a dire il vero, lo dico da lettore e non più attento come prima, la trovo priva di slanci conoscitivi, povera linguisticamente, carente di figuralità, anche laddove si mostra con le migliori intenzioni. Comunque sia, non lo vivo come un fallimento, bensì come una liberazione, avendo cambiato visione della scrittura. Sono arrivato tardi alla scrittura di ricerca, qui sì c’è un po’ di rammarico, e ho vissuto per anni la scrittura come in una sorta di grande rimozione, a volte anche in modo un po’ frustrante. Lo spazio di quell’illusione è andato scomparendo e sperimentare con la scrittura e la testualità di nuove forme mi invita ad osservare i linguaggi della contemporaneità, possibili o meno, con più attenzione. Ogni tanto torno anche a frequentare quegli autori che per anni avevo smesso di leggere e sui quali avrei molto imparato, ai tempi dell’università, se avessi perso meno tempo.

Fammi qualche nome di autori che ti piacciono.

Penso a Corrado Costa, a Nanni Balestrini, al loro modo di procedere, alle tecniche compositive di cui sono stati, loro si, dei maestri, sempre innovativi. Ancora oggi rimangono centrali, come del resto diversi altri. Non saprei dire però quali sono stati di più i miei maestri di ieri e di oggi. Ho la fortuna, questo posso dirlo, di frequentare diversi compagni di scrittura, molto attivi, seguendo da vicino le loro ricerche, affidandomi al loro punto di vista, a una lettura reciproca, attraverso un confronto che con alcuni è quotidiano. Penso all’esperienza di Esiste la ricerca, arrivata al terzo incontro, a Milano, l’estate scorsa, dove si dibattono i temi più urgenti nel confronto tra scrittura e società. Ho riscoperto il piacere della scrittura e della lettura anche grazie ad alcuni scrittori francesi contemporanei, poeti e teorici, come J.M. Gleize, N. Quintane, Tarkos, che in Italia possiamo leggere grazie alla casa editrice Tic e alle traduzioni di Michele Zaffarano. Ma se mi guardo indietro, a partire dagli anni ‘60, ci ancora sono diversi autori importanti che andrebbero approfonditi e diffusi maggiormente, e non solo italiani.

Adesso il corpo

ADESSO IL CORPO è in piedi, la percezione è pari a quella della magia e della gravità, la forza è di gravità che è scesa, tenuto dalle corde a distanza da ambo i lati fissate alla strada e dalla massa delle teste che spuntano per vederne la figura intera come si comprende che sia avvenuto, per vedere che la forza della magia e della gravità è quella del corpo sollevato con le corde entrambe che sono in equilibrio e uguali a zero, adesso applicate sostenendo un peso in verticale tirando delle corde ai lati del peso morto che è su due piedi che si tiene fermo per la somma uguale a zero delle forze che è in equilibrio, che le mani si rilassano un attimo dopo averlo fissato e il peso rigido del corpo non si muove che si è distribuito.

(da Tiro alla fune, Manufatto poetico 21, Zacinto Edizioni, Milano, 2024)

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